venerdì 27 ottobre 2017

ELETTROSHOCK: MA QUALE CURA?

Ripubblichiamo la lettera al giornale Il Tirreno, scritto dagli amici del Collettivo Antonin Artaud di Pisa, in risposta all'articolo ''Elettroshock: ogni anno a Pisa curati 60 pazienti''


ELETTROSHOCK: MA QUALE CURA?

Come Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud da anni siamo impegnati sul territorio per contrastare gli abusi della psichiatria, ponendo particolare attenzione alle modalità e ai meccanismi attraverso i quali essa si espande sempre più capillarmente e trasversalmente.

A quasi ottanta anni dalla sua invenzione, possiamo affermare che l’elettroshock è l’unico trattamento, che prevede come cura una grave crisi organica dei soggetti indotta a tale scopo, mai dichiarato obsoleto.
Anzi, si è cercato di modernizzarlo, sin dai primi anni, infatti già nel 1943 il professor Delay mise a punto una nuova tecnica: l’elettroshock sotto narcosi, anche detta elettroshock terapia modificata.

L’elettroshock oggi viene chiamato TEC (terapia elettroconvulsiva) ma rimane la stessa tecnica inventata nel 1938 da Cerletti e Bini. Cambiare nome all’elettroshock ha aperto la via a due ordini di cambiamento: anzitutto si è assicurato il proseguimento del trattamento riducendo il dibattito alle linee guida per l’utilizzo, nei soli ambiti medici e politici; l’altro cambiamento è rappresentato dall’opinione diffusa che lo vede come pratica non più utilizzata, superata e obsoleta, allo stesso modo dei salassi per mezzo di sanguisughe. Invece si tratta sempre di far passare la corrente elettrica per la testa di un paziente, che passando attraverso il cervello, produce una convulsione generalizzata. Migliorandone le garanzie burocratiche, così come introducendo alcune modifiche nel trattamento, vedi anestesia totale e farmaci miorilassanti , non si cambia la sostanza della TEC.
Rimangono la brutalità, la sua totale mancanza di validità scientifica e l’assenza di un valore terapeutico comprovato. I meccanismi di azione della TEC non sono noti. Per la psichiatria «rimane irrisolto il problema di come la convulsione cerebrale provochi le modificazioni psichiche» e «non è chiaro quali e in che modo queste modificazioni (dei neurotrasmettitori e dei meccanismi recettoriali) siano correlate all’effetto terapeutico» (G. B. Cassano, Manuale di Psichiatria). Ma per chi subisce tale trattamento la perdita di memoria e i danni cerebrali sono ben evidenti e possono essere rilevati attraverso autopsie e variazioni elettroencefalografiche anche dopo dieci o venti anni dallo shock.
Relativamente all’attuale e globalizzato panorama d’impiego dell’elettroshock, poco trasparente e condiviso, continuiamo a porci domande come queste.
Perché questo trattamento medico – che per stessa ammissione di molti psichiatri che lo hanno applicato e che continuano ad applicarlo – utilizzato in passato come metodo di annichilimento dell’umano, come strumento di tortura, come mezzo repressivo contro la disobbedienza, non viene dichiarato superato dalla storia?

È sufficiente praticare un’anestesia totale per rendere più umana e dignitosa e legittima la sua applicazione?
Durante la sua applicazione pratica, si sta ancora immettendo corrente elettrica verso il cervello di un proprio simile oppure si effettua un intervento equiparato ad ogni altra operazione chirurgica peraltro senza usare bisturi?
Possono dei benefici temporanei, che per avere effetto devono comunque essere accompagnati dall’assunzione di psicofarmaci, essere un valido motivo per usare questo trattamento?
Si possono ignorare gli effetti negativi dell’elettroshock?

Ci teniamo a ribadire che nonostante le vesti moderne l’elettroshock rimane una terapia invasiva, una violenza, un attacco all'integrità psicologica e culturale di chi lo subisce. Insieme ad altre pratiche psichiatriche come il TSO, l’elettroshock è un esempio, se non l’icona, della coercizione e dell’arbitrio esercitato dalla psichiatria. Il  percorso di superamento dell’elettroshock e di tutte le pratiche non terapeutiche deve essere portato avanti e difeso in tutti i servizi psichiatrici, in tutti i luoghi e gli spazi di cultura e formazione dove il soggetto principale è una persona, che insieme ai suoi cari, soffre una fragilità.
Per chiunque voglia approfondire l’argomento, come collettivo abbiamo scritto il libro “ELETTROSHOCK. La storia delle terapie elettroconvulsive e i racconti di chi le ha vissute.” Edizioni Sensibili alle foglie 2014. Questo libro propone un viaggio nella storia delle shock terapie, che precedono e accompagnano l’applicazione della corrente elettrica al cervello degli esseri umani e delle testimonianze di persone in carne ed ossa, che sono state sottoposte all’elettroshock. Lo trovate sul nostro sito scaricabile gratuitamente www.artaudpisa.noblogs.org

COLLETTIVO ANTIPSICHIATRICO ANTONIN ARTAUD, Via San Lorenzo 38 Pisa, tel. 3357002669  antipsichiatriapisa@inventati.org  www.artaupisa.noblogs.org

 

martedì 24 ottobre 2017

Proseguono le udienze per il processo sulla morte di Andrea Soldi

Morì per il Tso, in aula i suoi ultimi istanti di vita: “Andrea era a terra, respirava e aveva polso”

Il trasporto prono e ammanettato dietro la schiena sarebbe stato autorizzato da medico e infermiere

«Quando è stato ammanettato, Andrea Soldi era vivo. Pressione 110 su 60, con 8-9 pulsazioni in una decina di secondi», testimonia in aula Andrea Campassi, infermiere dell’Asl, nel processo a uno psichiatra e tre vigili urbani accusati di omicidio colposo. Il 5 agosto 2015, c’è anche lui in piazzetta Umbria. Quel giorno, lo psichiatra Pier Carlo Della Porta chiede l’intervento della polizia municipale per un Tso «del ragazzo», come lo chiama Campassi. La definizione tradisce un moto d’affetto, a dispetto dei 47 anni dell’uomo mai arrivato a ricevere le cure che il medico aveva disposto.

«Conoscevo bene Andrea, fino a dicembre 2014 era venuto in ambulatorio per le cure, poi aveva smesso» ricorda l’infermiere. Davanti al giudice Federica Florio, spiega che era «sfuggente, difficile da raggiungere. Non era possibile andare a casa sua, la viveva come un’intrusione, era molto geloso di quello spazio. Una volta gli ho telefonato per presentargli un operatore e non l’ha presa bene».

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La chiamata
Per la centrale operativa del «118», Andrea era un «codice giallo 5 sierra». Tradotto: malato psichiatrico, in strada, con «parziale compromissione delle funzioni dell’apparato circolatorio o respiratorio» secondo la classificazione della medicina di emergenza. L’intervento era programmato, con tanto di polizia municipale. «Per ogni evenienza, non era detto che dovessero intervenire», aggiunge. Poco distante c’è anche Renato Soldi, il papà di Andrea, costituito parte civile assieme alla figlia Maria Cristina (avvocati Luca Lauri e Giovanni Maria Soldi). Ma resta in disparte. «Ha valutato che farsi vedere potesse essere controproducente», aggiunge.

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Lo psichiatra e l’infermiere cercano di convincerlo, ma lui rifiuta la cura. È seduto su una panchina, pare tranquillo. «Diceva che era un analgesico per il mal di schiena e lui non ne aveva più bisogno perché era guarito», dice l’infermiere. L’intervento è stato chiesto da papà Renato. «Era preoccupato, aveva notato alcuni “campanelli d’allarme”, come la difficoltà a gestire il denaro, la mancanza di igiene personale e le condizioni della casa», aggiunge.

L’intervento del collega
Fallite le chiacchierate, su richiesta dei vigili urbani lo psichiatra ha chiesto l’intervento di un collega, per la seconda firma per validare la richiesta di Tso. «Anche lui ha provato a spiegare», ma alla fine Andrea «ha incominciato a pronunciare frasi sconnesse, anche in piemontese stretto». Un vigile ha provato a inserirsi nel monologo, ma ottiene il contrario. A quel punto, scatta l’azione. «Era alto un metro e 80 per 130 chili, la fisicità poteva spaventare, ma lui non è mai stato violento», dice ancora l’infermiere. Due vigili gli prendono le braccia, uno il collo. «Lo ha tenuto per almeno un minuto, il tempo di preparare l’iniezione», dice l’infermiere. Riesce a infilare l’ago sopra il «gluteo destro di Andrea, ma lui libera il braccio destro e spazza via la siringa». La situazione ha un’accelerazione: Andrea finisce con la faccia a terra, ammanettato dietro la schiena. Posizione che manterrà fino in ospedale. Gli avvocati difensori dei quattro imputati (Anna Ronfani e Stefano Castrale) cercano di chiarire la situazione. Soprattutto, le condizioni di salute di Andrea. «Ho visto un movimento della cassa toracica, respirava. Ho misurato pressione e battiti», spiega l’infermiere.

In ambulanza
E ci riprova anche appena caricato in ambulanza. Ancora a faccia in giù, ammanettato dietro la schiena. Secondo la scheda compilata dagli ambulanzieri, la decisione è stata presa dall’infermiere e dallo psichiatra. Ma in quella posizione, «non sono riuscito a fargli mettere la mascherina per l’ossigeno», dice. Misura il tasso di saturazione di ossigeno nel sangue. «Era 66», aggiunge. Per lui, non è un valore critico e non segnala la situazione al pronto soccorso dell’ospedale Maria Vittoria, dove arrivano qualche minuto dopo.
In fondo alla scheda dell’intervento, c’è anche la firma di Matteo Di Chio, ambulanziere della Croce Rossa. La sua testimonianza è piena di contraddizioni, di «non ricordo». Il pm Lisa Bergamasco e gli avvocati mostrano pazienza, ma lo stesso giudice deve intervenire per spiegare al testimone che «deve dire soltanto ciò che ricorda, nessuna deduzione o collegamento logico». E in quanto a logica, sovente le sue affermazioni fanno difetto. Come quando esprime le perplessità avute per le modalità di trasporto di Andrea, ma non sa spiegare perché non ha chiamato la centrale operativa per segnalare la questione.
Alcune circostanze, però, svettano nella questa nebbia che avvolge i suoi ricordi. Come la reazione di un vigile quando al pronto soccorso gli hanno chiesto di togliere le manette ad Andrea: «Calma, adesso lo faccio». Avevano appena gridato che Andrea era «in arresto cardiocircolatorio».

fonte:www.lastampa.it

giovedì 12 ottobre 2017

Lista aggiornata decessi in psichiatria

Riceviamo dal CAR (Collettivo Antipsichiatrico Rovereto) e pubblichiamo il loro lavoro  di raccolta informazioni una lista aggiornata al 2017 di decessi in psichiatria. Alcuni sono morti in TSO, altri in ricovero volontario. Altri sono morti di suicidio, altri, a nostro avviso con probabile istigazione al suicidio (ART 414 codice penale). L'ordine dell'elenco è parziale (sic!) e non cronologico:

2009 Campania _ Francesco Franco Mastrogiovanni 58 anni di Castelnuovo Cilento deceduto il 4 agosto 2009 a Vallo della Lucania (Salerno); cantava canzoni su di una spiaggia in piena estate e solo per tal motivo venne internato in regime TSO. Morirà dopo ben 87 ORE di contenzione ad un letto. Il suo decesso orribile mostrato a RAITRE, darà il via all'anti-omertà antimafia sui decessi in psichiatria e via via anche a potenziali istigazioni suicidio (ART. 580 codice penale) che vengono sempre taciuti per vergogna, ignoranza (parenti e amici), lassismo istituzioni e falso perbenismo. L'ariete su tali crimini taciuti, sarà proprio il martirio di Francesco a RAITRE nonostante a Cagliari si fosse verificato ancora nel 2006 la morte di Giuseppe Casu con similitudini inequivocabili. Resterà sempre in vetta alla lista per tal motivo. Fu lui grazie alla determinazione di parenti e testimoni sulla spiaggia che immortalarono la scena con i vigili ad abbattere i muri dell'ignoranza, dell'ingenuità

venerdì 6 ottobre 2017

12/10 Benefit spesa legale Collettivo Artaud


GIOVEDI’ 12 OTTOBRE
Il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud e l’Osservatorio Antiproibizionista Canapisa Crew

Presentano:
APERICENA MUSICALE

BENEFIT per le spese legali del Collettivo Artaud dalle ore 19

c/o Circolo Anarchico vicolo del Tidi 20 Pisa